da Rapato a zero di Carlo Coccioli: una perfetta metafora del nostro tempo.
FESTA DELLA PACE
a Juan Héctor Mendez
All’improvviso si ritrovò nella luce. Com’era stato il buio che l’aveva imprigionata, quanto era durato, e perché? Nel buio non vi erano stati alimenti e neppure acqua: aveva sete, aveva fame. Intorno e in basso c’era l’oceano tempestoso di centoventimila esseri trepidanti. Quello, dicevano, era lo stadio più grande del mondo. Probabilmente una menzogna della propaganda ufficiale; o un’esagerazione puerile; il solito nazionalismo esasperato, aggressivo, un po’ misero, dei paesi terzomondisti. Ciò non impediva che la moltitudine fosse davvero impressionante. Lei, accecata dalla luce, smarrita nel rombo dei suoni, ebbe paura.
Si mosse agitatamente, ma nessuno le prestò attenzione. Nell’immensa arena sfilavano le delegazioni dei cento e tanti paesi che avrebbero partecipato al torneo. Si trattava del campionato mondiale di calcio: solo che per giovani. Tutto ciò avveniva col consenso e sotto l’ispirata guida della potente federazione internazionale che reggeva con un’autonomia quasi sovrana tal genere di avvenimenti; ma il torneo non si sarebbe potuto effettuare se la più ricca fabbrica di rinfreschi imbottigliati del pianeta non avesse concesso il suo patrocinio e, of course, i suoi quattrini. «Beva Coca-Cola» scritto in… quante sono le lingue del pianeta Terra? Pare che la Bibbia possa leggersi tradotta in più di quattrocento lingue. In quante versioni si legge «Beva Coca-Cola» o la formula equivalente?
La folla rumoreggiava, mentre sullo sterminato prato verde, a dire il vero più giallo che verde, per la stagione secca, e abbastanza sudicio, facevano circonvoluzioni ballerini folclorici fingendo, i maschi, un maschismo che quasi sicuramente non dimostravano nel corso delle loro esistenze quotidiane. Gallettini nell’aspetto, e nella sostanza galline; non è questo il maschismo? Il «macho-man» che offre distrattamente le natiche, quasi per inavvertenza, come addormentato, o sottratto a ogni responsabilità dai troppi bicchieri opportunamente bevuti… Maschismo maschera: ma questa è un’altra storia. Stavamo parlando di paura.
Sì, ebbe paura, e si mosse agitata, e molte mani si tesero verso di lei, non sapeva se per invitarla o per scacciarla. Era un mondo confuso. Cos’era in realtà? Lei non era atta, si capisce, a farsi delle domande. Sentiva, avvertiva, sopportava, pativa; e basta. Inutile aggiungere che aveva il perfetto privilegio del dolore. In quanto a definire se avesse o non avesse coscienza… Cos’è, in fin dei conti, quello che chiamiamo «coscienza»? Se è sapere che si sta soffrendo, non c’è essere vivente che non abbia coscienza. Manca forse, dal punto di vista della logica (della logica del genere umano), la sofisticazione del dolore «descritto». Ma anche questa è un’altra storia.
Duecentoquarantamila braccia si tendevano verso il cielo in un tripudio idiota. Era un mostro. Aveva il mostro coscienza di quanto stava facendo? È probabile di no, per lo meno stando al concetto normale che della cosiddetta coscienza possiede il genere umano.
E lei aveva aperto gli occhi, e visto la luce per la prima volta, quante volte prima che la luce diventasse buio e il buio luce: giorni, notti, nel linguaggio del genere umano? Chissà. C’era la calda, inconfondibile presenza della madre. C’era l’alimento offerto in bocca. C’era la felicità fisica di essere. Ma, subito dopo, erano cominciati gli affanni di questa cosa che siamo. Che cosa siamo? Dove andiamo?
È da giurare che tali domande non se le facesse la colomba che, in mezzo ad altre tremila, era stata liberata da un’oscura prigionia per «festeggiare» con un ampio volo l’inaugurazione del torneo mondiale di calcio giovanile: questa meravigliosa manifestazione a favore della pace organizzata dalla Coca-Cola Inc. col beneplacito dei governi di quasi tutte le nazioni del mondo.
Una cosa certa: la colomba aveva una paura atroce e, fra le duecentoquarantamila braccia che si alzavano, ossia fra due milioni quattrocentomila dita che si muovevano come feroci insetti dementi, non scorgeva cinque centimetri quadrati su cui posarsi. Era assetata, affamata, atterrita, affranta. Svolazzò perdutamente, ma due milioni quattrocentomila dita la rilanciavano verso il cielo ostile. E l’urlo. Fra tante luci meccaniche, violente, la colomba, questo simbolo di pace, non sapeva se ciò avvenisse in quello che nel linguaggio del genere umano si chiama giorno o in quello che nello stesso linguaggio si chiama notte. Era notte, ma la colomba non lo sapeva.
Aveva un infinito dolore nella sua essenza, e non tentò di resistergli. Nel suo incubo intravide una fiamma: era la Torcia della Pace fra i Popoli della Terra, una luce sacra. La colomba dovette sentire che «quello» l’avrebbe distrutta, ma era l’unico, proprio l’unico posto su cui posarsi, e lei era troppo, troppo affranta, sicché vi si posò, morendo immediatamente bruciata.
E’ una rilettura. E’ talmente intensa l’emozione che lo scrittore trasmette che questa si rinnova tale e quale anche rileggendolo un’infinità di volte. Non riesco a staccarmi dalla lettura di questo scrittore,quando passo ad altri scrittori,questi non reggono al confronto. E’ un’ammirazione molto tardiva la mia,e tuttavia sono contenta di prolungare la lunga schiera di ammiratori che ebbe in vita(non necessariamente italiani).